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Emilia Fadini: La revisione critica e il rinnovamento della didattica musicale nei Conservatori

La necessità dell’utilizzo delle edizioni critiche per sollecitare «la fantasia e l’indipendenza intellettuale»

In questo scritto ripropongo i tratti salienti di un articolo di Emilia Fadini del lontano 1983 e tuttavia ancora di grande attualità.  Fu pubblicato sulla rivista Siem (Organo della Società Italiana per l’Educazione Musicale – Sezione Italiana della International Society for Music Education) con il titolo Musica e domani, Trimestrale di cultura e Pedagogia musicale, G. Ricordi e C. s.p.a Editore.

Le premesse del ragionamento di Fadini sono i concetti di specializzazione e di progresso che dall’800 in poi hanno caratterizzato la nostra cultura; infatti, «la specializzazione favorisce indubbiamente l’approfondimento del linguaggio tecnico […], ha però condotto un po’ alla volta la maggior parte degli esecutori al disinteresse verso quanto avviene al di fuori del proprio campo specifico […].  E all’interno del campo della musica dotta si arriva a giustificare che i compositori non suonino, che gli esecutori ignorino la composizione e si disinteressino totalmente della conoscenza di strumenti diversi dal proprio […]. Con questo non si vuole affermare che la specializzazione non debba esistere, ma si vuole invece rimettere in discussione la formazione radicalmente settoriale che il musicista riceve oggi in Italia».

Interpretazione e prassi esecutiva

L’inizio di questa sezione è lapidario: «L’interpretazione della musica antica passa attraverso un’operazione che è al tempo stesso musicologica, esecutiva e creativa». Colpisce molto che la studiosa caratterizzi come prima istanza l’interpretazione «un’operazione musicologica». Lo spiega immediatamente argomentando che è determinante la «lettura del segno», a sua volta mutevole per scuola nazionale, epoca, convenzioni di scrittura, specificando:

«Ogni interprete dovrebbe conoscere approfonditamente la teoria musicale relativa alle opere che si propone di interpretare, per non incorrere nell’errore di attribuire a quella scrittura significati derivati da epoche successive, specialmente da quella ottocentesca, a cui noi regolarmente facciamo riferimento e nella quale siamo stati educati».

Ma non basta: Fadini rincara la dose, a mio avviso più che opportunamente, scrivendo che «l’interpretazione della musica antica non può prescindere dalla pratica esecutiva, in quanto ogni problema musicale richiede una verifica diretta sullo strumento e, inoltre, perché la grafia originale molto spesso ispira soluzioni interpretative che soprattutto chi è pratico dei segreti, per così dire, dello strumento può cogliere». Infine, una corretta interpretazione della musica pre-romantica «richiede un’approfondita conoscenza della composizione perché a differenza di quella ottocentesca e della massima parte di quella novecentesca» nella musica antica l’interprete è chiamato a «un intervento creativo». La sezione si conclude con una difesa della grafia originale dei testi musicali antichi, nonostante essa sia considerata molto più rozza e scomoda rispetto alle trascrizioni moderne, più conformi ai canoni di lettura correnti. Fadini, cioè, correla fortemente la presunta indeterminatezza della scrittura antica alla grande connessione tra quest’ultima e le modalità di fruizione sociale delle composizioni.

Il contesto socio-culturale

La tesi a difesa della grafia originale parte, secondo Fadini, non soltanto dall’indispensabile conoscenza della semiotica di riferimento, ma anche e a maggior ragione, dallo «scoprire che tipo di rapporto esistesse a quei tempi fra il musicista e la società in cui viveva». Se «a partire da Beethoven l’opera d’arte musicale diventa oggetto di un ascolto passivo e assorto», in precedenza era una sorta di traccia: i «tratti essenziali» venivano affidati allo strumentista, affinché se ne impossessasse e «li adeguasse prima di tutto alla propria fantasia e buon gusto».

Tutto questo fu possibile grazie alla trasmissione orale delle informazioni, e quindi solidamente in possesso degli esecutori del tempo, dotati di «fantasia e buon gusto». Un concetto, quest’ultimo, ben espresso al nono punto degli avvertimenti di Girolamo Frescobaldi al Il Primo libro di Toccate e Partite d’Intavolatura di Cimbalo, (1615), che mise in causa proprio «il buon gusto e fino giuditio dell’esecutore», appunto come bagaglio acquisito da una formazione ad ampio spettro.

Precisato tutto ciò, continua Fadini, la musica assolveva molte funzioni sociali e si adattava, di conseguenza, alle circostanze, essendo «soprattutto uno strumento di comunicazione».

L’esecutore, pertanto, si disponeva verso più soluzioni interpretative possibili della musica strumentale, essendo «autorizzato molto spesso ad aggiungere a suo criterio parti mancanti, ad armonizzare, ornare o addirittura comporre o improvvisare ritornelli variati (i cosiddetti Doubles)».

Il clavicembalista, in particolare, decideva gli organici, concertava e all’occorrenza componeva: «questi sono i motivi principali che spiegano l’indeterminatezza per noi sconvolgente di queste partiture».

Pertanto, «la grafia musicale prima dell’Ottocento non era rozza e imprecisa. Al contrario essa era ricca di spazi in cui lasciare libera la fantasia dell’interprete». Questo ragionamento crolla però tragicamente tutte le volte che l’interprete non correla il segno ai codici del tempo in cui fu scritto e si fa invece condurre da un’estetica condizionata dai grandi cambiamenti introdotti dall’Ottocento romantico e dal Novecento.

Edizioni critiche e didattica musicale

Fatte le dovute premesse sulle peculiarità della scrittura musicale antica e sulla sua interpretazione, Fadini affronta il problema delle edizioni disponibili e delle loro implicazioni. Mentre in precedenza l’interprete doveva completare la musica scritta con una serie di interventi creativi, basati però su una ‘dottrina’ solidamente appresa da una formazione dispiegata su più fronti, con la figura del revisore i ruoli si separarono nettamente: da una parte «i compiti teorico-culturali» (il revisore), dall’altra quelli «tecnico-pratici» (l’interprete). Una dicotomia drammatica per un approccio corretto alla musica del passato, superata soltanto in parte ancora oggi, quanto alla didattica nei conservatori, dalla diffusione ormai capillare delle edizioni critiche.

Le edizioni critiche e quelle «tecnico-interpretative»

Già agli inizi del Novecento, scrive Fadini, in Germania e Inghilterra si provvide non solo alla ristampa delle opere del passato, ma anche al «recupero dei criteri secondo i quali dovevano essere interpretate», al fine di impedire che fossero falsate dalla tendenza a eseguirle nel gusto prettamente ottocentesco. Quest’atteggiamento è la base di un’edizione critica, cioè di un testo volto a rendere fruibili le opere con una notazione moderna, ma salvaguardandone la nuda integrità, cioè intervenendo soltanto su correzioni indispensabili ed evitando di fornire soluzioni interpretative, siano esse, per esempio, a riguardo degli ornamenti, che per tutti gli altri elementi musicali atti a una restituzione esecutiva e artistica. Fadini non approfondisce in questo frangente i numerosi codici che concorrono a definire un’edizione critica, che, tra l’altro, deve confrontare necessariamente tutte le fonti disponibili, presentare la migliore tra esse motivandone adeguatamente le ragioni, e riportare in apparato ogni possibile variante della grafia nonché intervento del curatore.

Il revisore con la sua «funzione sacerdotale impedisce al musicista di pensare»

Sempre in Germania, continua Fadini, si consolidò un movimento fortemente influenzato dal virtuosismo, in particolare quello pianistico (von Bȕlow, Thalberg e soprattutto Liszt), che mirò piuttosto a fissare un solo modus e condizionò in Italia la didattica strumentale dai primi del Novecento tramite l’intermediazione di musicisti eccellenti, e cioè i revisori. In campo pianistico possiamo citare tra gli altri i notissimi Mugellini, Casella, Tagliapietra, Busoni, nomi che di fatto cristallizzarono le esecuzioni con una serie di scelte personali a tutto tondo (fraseggi, diteggiature, dinamica, tempi di metronomo e via discorrendo). Tali scelte, oltretutto segnate fortemente dall’estetica e dalle conoscenze dell’epoca, annullarono di fatto ogni varco di iniziativa personale e creativa sul piano dell’interpretazione. È importante qui citare le parole esatte che Fadini dedica alle conseguenze di queste operazioni:

«In tal modo il revisore assume una funzione che non esiterei a definire sacerdotale, nel senso che egli ritiene di essere il solo, vero interprete del pensiero dell’autore. In realtà avviene che gli esecutori, che di queste edizioni si servono, sono declassati al ruolo meccanico di tecnici dello strumento. Questa funzione autoritaria e limitativa della pedagogia musicale impedisce all’allievo l’esercizio critico-interpretativo perché lascia al revisore il compito di fissare una volta per tutte modelli di interpretazione unici e indiscutibili. In altre parole, direi che tale sistema di revisione impedisce al musicista di pensare

La didattica come conoscenza

Va da sé, che se ci si affida al pensiero di musicisti pur senza dubbio di grande livello, ma fortemente influenzati da criteri interpretativi segnati più dal pensiero tardo-ottocentesco che dalla conoscenza di quello specifico della letteratura precedente, «la fantasia e l’indipendenza intellettuale degli allievi» ne risulterà atrofizzata:

«L’istruzione musicale deve finalmente considerare l’opportunità di fornire all’allievo, fin dai primi anni di studio, strumenti conoscitivi atti a sviluppare il suo senso critico e le sue facoltà creative. […] Una didattica di questo genere [cioè che preferisce utilizzare il pensiero del revisore, n.d.r.] porta inevitabilmente alla formazione di insegnanti che preferiscono affidarsi alle istruzioni del revisore piuttosto che maturare una propria linea di interpretazione».

Alfredo Casella e la «grafia troppo rudimentale di Beethoven»

Prima delle conclusioni, Fadini cita un lungo scritto di Alfredo Casella, principale artefice dei vecchi programmi della scuola di Pianoforte del 1930, tratto dalla prefazione alla sua revisione delle Sonate di Beethoven pubblicata nel 1918.

Casella esordisce con un dilemma che denuncia immediatamente quali fossero l’approccio e le sue conoscenze rispetto alle composizioni di Beethoven:

«Il primo problema da risolvere, quando si tratta di preparare una nuova edizione delle Sonate per pianoforte di Beethoven, è questo: devesi ricostituire il semplice testo originale (come si sa, assai imperfetto), oppure completarlo, mettendo in luce tutte quelle infinite intenzioni esistenti allo stato ‘latente’nella grafia troppo rudimentale di Beethoven? Il quesito si risolve senza difficoltà, secondo gli scopi di ogni edizione. Se questa è destinata a pochi artisti i quali intuiscono fraternamente i pensieri più reconditi dei grandi creatori, non vi è dubbio che il testo è più che bastevole per tali eccezionali interpreti. […] Ma qualora invece l’edizione (come nel presente caso), abbia specialmente obiettivi didattici, allora la faccenda è ben diversa. Come accennavo poco sopra ai tempi di Beethoven l’arte delle indicazioni interpretative era ancora ai suoi inizii. Il compositore moderno fissa tutti i più piccoli impercettibili particolari della sua interpretazione. Invece, sul cominciare dell’Ottocento, gli autori si contentavano d’indicazioni generali, lasciando all’esecutore una libertà molto più larga (forse che gli interpreti di allora meritassero maggior fiducia di quelli moderni?!). […] Attraverso il secolo scorso sino ai nostri giorni, le indicazioni interpretative si sono andate moltiplicando senza posa, limitando moltissimo la preparazione analitica e intuitiva sulla quale l’esecutore doveva appoggiare, in passato, le proprie interpretazioni».

A seguito di questo scritto, Fadini osserva prima di tutto che «Casella considera l’intuito come qualcosa che esiste e si sviluppa indipendentemente dallo studio storico, analitico e tecnico. Questa posizione tipicamente idealistica gli consente di affermare che soltanto quei pochi ed eccezionali interpreti che possiedono la qualità miracolosamente innata dell’intuito possono penetrare il pensiero dei grandi creatori. Casella definisce ‘rudimentale’ la grafia di Beethoven e sommarie le sue indicazioni interpretative – Bach, egli dice, le taceva del tutto -, e si domanda se gli interpreti di allora meritassero maggior fiducia di quelli attuali. Ebbene, la risposta è SÌ! Essi la meritavano sicuramente, in quanto la loro preparazione musicale non era molto inferiore a quella di un compositore. Infine, Casella afferma che l’esecutore in passato doveva appoggiare la propria interpretazione su una preparazione analitica e intuitiva. Ebbene, concluderei auspicando il recupero di quella preparazione musicale che il sistema didattico novecentesco ha in parte soffocato, e mi dichiaro convinta che un’autentica autonomia di espressione possa considerarsi facoltà della maggioranza degli interpreti e non soltanto di pochi ed eletti artisti».

Conclusioni

Con le parole immediatamente precedenti, citate integralmente, Emilia Fadini conclude il suo articolo. Riletta oggi, la disamina di Casella denuncia più volte l’inevitabile storicizzazione dei suoi contenuti: «gli autori del passato si contentavano d’indicazioni generali»; la grafia di Beethoven era «rudimentale», nonché «imperfetta» e mancante di opportune indicazioni. Inoltre, e a proposito di «intuizioni», da una parte rende quest’ultime appannaggio di talenti specialissimi, dall’altra le attribuisce indiscriminatamente a tutti gli interpreti del passato, cogliendo, da grande musicista qual era e intuitivamente appunto, data la mancanza di studi musicologici avanzati illo tempore, la necessità virtuosa di una sintesi perfetta tra analisi e intuizione, fuse in un atto creativo dell’interprete consapevole. Detto questo, nonostante la mole immane di studi musicologici e informazioni ormai facilmente disponibili, al giorno d’oggi capita ancora di imbattersi in una didattica pre-confezionata su concezioni risalenti a più di un secolo fa e resistente al grande contributo degli studi musicologici messi in campo da molti decenni. Tutto ciò si traduce in una deresponsabilizzazione etico-culturale inaccettabile della funzione docente, che, come conseguenza, scrisse Fadini, «impedisce al musicista di pensare».

Leggi anche: Emilia Fadini e Domenico Scarlatti: una introduzione alle fonti

Riferimenti:

L’articolo completo di Emilia Fadini La revisione critica e il rinnovamento della didattica musicale nei Conservatori è stato pubblicato su Musica e domani, Trimestrale di cultura e Pedagogia musicale, Siem (Organo della Società Italiana per l’Educazione Musicale – Sezione Italiana della International Society for Music Education), G. Ricordi e C. s.p.a Editore, Milano 1983.

La prima edizione delle sonate di Beethoven con la revisione di Alfredo Casella fu pubblicata a Milano da G, Ricordi & C. nel 1918. Nel suo articolo Emilia Fadini, a proposito della prefazione all’opera da parte di Casella, precisa che il testo del revisore fu riproposto fino alle ristampe del 1940.

Immagine

Barthélemy d’Eyck, Natura morta con libri in una nicchia, 1442-1445, olio su tavola, cm 30 x 56, Rijksmuseum, Amsterdam

1 commento su “Emilia Fadini: La revisione critica e il rinnovamento della didattica musicale nei Conservatori”

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