Le basi del ‘Jeu perlé’
Marguerite Long (Nîmes, 13 novembre 1874 – Parigi, 13 febbraio 1966) è stata una grande pianista che ha dedicato molta attenzione anche all’insegnamento, con particolare riferimento al pianismo francese a al ‘Jeu perlé”. Tra i suoi allievi si contano molti eccellenti pianisti, quali Jacques Février, Samson François, Marcelle Meyer, Zvart Sarkissian, Philippe Entremont, Georges Savaria, Aldo Ciccolini, Annamaria Pennella e Marielle Labèque.
Marguerite Long ha dedicato due opere alla didattica del pianoforte: Le Piano (1959) e La petite méthode de piano (1963), entrambe pubblicate dalle edizioni Salabert. Di seguito la mia traduzione dei passi salienti della prima parte della prefazione a Le Piano, in cui la didatta si concentra particolarmente sulle basi del tocco francese.
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La premessa: l’insegnamento deve tener conto di ogni caso specifico
Come tutti i docenti circondati da una famiglia numerosa di discepoli, sono stata sollecitata per molto tempo a fissare e divulgare in un’opera ‘tecnica’ i principi del mio insegnamento del pianoforte.
Nell’insegnamento artistico la parte più importante sfugge a ogni codificazione. Sarebbe puerile, in effetti, considerare l’insegnamento musicale come un insieme di ricette, come una collezione di segreti, di procedimenti, di espedienti, di giochi di prestigio, di stratagemmi, di cui abili specialisti detengono il privilegio e la capacità di trasmetterli, intatti, ai loro allievi.
È molto imprudente voler ridurre ad assiomi e formule infallibili una carriera pedagogica, perché l’insegnamento deve essere flessibile, tener conto di ogni caso specifico. Ciò che è vero per una mano, per una natura di un individuo, non lo è per un’altra mano o per un altro temperamento. Il giudizio di un maestro vale di più delle sue teorie.
Non credo ciecamente al dogmatismo pianistico […] e sono tentata piuttosto di dire: non esiste un metodo, esistono gli allievi. E, d’altra parte, se non esiste un metodo infallibile, sarebbe paradossale pretendere che non se ne utilizzi alcuno.
[…] E inoltre, se in materia di tecnica pianistica, come del resto per tutto, nessuno può vantarsi di detenere la verità assoluta, è pur vero che ognuno, esercitando il proprio mestiere, deve riconoscere la sua più profonda verità, cioè l’insieme dei principi con i quali non smette di essere d’accordo. È con questo spirito che mi permetto oggi di ‘posare la mia pietra’ sull’edificio eternamente in costruzione, sotto le cui volte gli artisti di ogni tempo si sono sforzati di rendere eterno il culto dei capolavori.
Il pianismo francese
Allo stesso tempo ho obbedito a un impulso segreto della mia coscienza. Ho voluto rendere pubblicamente omaggio all’arte e alla scienza del pianismo ‘francese’.
[…] Malgrado la differenza di temperamento dei nostri grandi virtuosi, in tutti si possono osservare alcune caratteristiche comuni. Pianisti così diversi come un Planté, un Diemer, un Pugno, un Risler, un Saint Saëns, un Delaborde, sono stati uniti da una segreta comunanza di tecnica e stile, fatta di chiarezza, di flessibilità, di misura, di eleganza e di tatto. Il suono francese è lucido, preciso, sciolto. Se indulge talvolta nella grazia più che nella forza, sempre conservando il suo equilibrio e il senso delle proporzioni, non è comparabile sul piano della potenza, della profondità e dell’emozione interiore […].
I nostri musicisti nazionali, da Couperin a Ravel, hanno ognuno sviluppato nell’arte pianistica il senso del timbro e del colore. Compositori come Fauré e Debussy ci hanno rivelato sottili e preziosi segreti nell’ambito della ricerca della voluttuosa risonanza armonica. Questi, al seguito di Chopin, come Ravel a quello di Liszt, hanno accresciuto e organizzato le conquiste dei loro antenati […]. Il suono francese, al tempo stesso vigoroso e morbido, brillante e delicato (Debussy lo definiva «la dolcezza nella forza e la forza nella dolcezza»), ha quindi una personalità facilmente riconoscibile.
È alla difesa e al tempo stesso alla diffusione di tutto ciò, che è così importante preservare, che ho voluto consacrare questo lavoro.
La saggezza delle mani e delle dita
[…] All’estremità delle braccia, le mani e le dita non sono soltanto una miracolosa meccanica muscolare, ma anche prodigiosi organi di percezione dotati di una sensibilità propria, direi quasi di un talento naturale. Se spesso obbediscono al cervello, più spesso di quanto non si creda sono proprio loro a gestire il controllo. […] Il tocco è una facoltà altrettanto ricca e forse più essenziale che la vista, l’udito, l’olfatto. È dunque nei riflessi e nelle ingiunzioni di questi delicati e potenti strumenti vivi che risiede a mio avviso il segreto dell’arte pianistica.
[…] Degli esercizi semplici, elementari, razionali, codificati dalla tradizione e il loro complemento indispensabile, gli studi, al cui primi rango […] quelli di Czerny, maestro di tecnica, sono le tappe necessarie per le quali un pianista deve passare. Se non intraprende questo cammino dall’inizio, dovrà riprenderlo in seguito, rimpiangendo il tempo perduto.
Lo studio del pianoforte necessita di lunghi sforzi, ma questi non consisteranno in una lotta contro natura. Una mano normale è fatta per suonare il pianoforte e il pianista che non condivide quest’idea è indegno della sua arte.
La perfezione della morfologia delle mani e delle dita
Un’osservazione superficiale vede molti difetti nella mano, ma riflettendo si comprende che questi difetti apparenti sono al contrario delle qualità. Se il pollice fosse della stessa lunghezza delle altre dita, o più esattamente, se il suo asse di articolazione fosse sullo stesso loro piano, come potrebbe effettuare il suo passaggio, facoltà che permette gli spostamenti lungo tutta la tastiera? Se l’indice fosse disposto in altro modo potrebbe essere il ‘pilota’, il governatore delle altre quattro dita dipendenti dal palmo della mano e allo stesso tempo un intermediario tra l’asse del pollice e il ventaglio attivo rappresentato dal resto della mano? Se persino l’anulare fosse libero da aponeurosi che sembrano paralizzarlo tra il medio e il mignolo, tutta la parte esterna della mano (e di conseguenza il mignolo così importante per l’attacco degli accordi, per la determinazione delle posizioni e per il risalto della linea melodica) avrebbe la stabilità e la forza necessarie? Conosciamo il caso di Schumann, che volendo a ogni costo ‘forzare’ il quarto dito ne ottenne la definitiva paralisi.
Studiare il tocco proprio di ogni dito
È importante citare la singolare annotazione di Chopin a margine del metodo di Moscheles:
«Per troppo tempo si è agito contro natura cercando di dare a ogni dito la medesima forza. Invece, essendo la forma di ciascuno differente, sarebbe meglio studiare il tocco proprio di ognuno piuttosto che di distruggerlo. Ogni dito ha una forza proporzionale alla sua forma. Il pollice è il più forte perché il più grande e il più libero. Subito dopo, al lato opposto della mano, viene il mignolo. Il medio è il punto d’appoggio principale e l’indice ha quasi la stessa funzione. Infine c’è l’anulare, il più debole. Si è provato in ogni modo a rendere questo dito indipendente dal terzo al quale è unito da un tendine comune, un tentativo del tutto sterile e inutile».
Chopin non vuole certo dire che bisogna trascurare l’eguaglianza delle dita, ma che questa eguaglianza non si ottiene con l’uniformazione della forza per ciascuno di loro. D’altro canto, Chopin considera il mignolo di pari forza che il pollice. Questa forza ha però necessità di essere liberata attraverso il lavoro. […] Da parte mia, considero il secondo dito l’assoluto timone della mano e lavorare sulla sua precisione e sulla sua stabilità non sarà mai abbastanza.
L’educazione statica delle dita: a) gli esercizi per le cinque dita
[…] Prima di tutto conviene per lo studio conservare i movimenti naturali, per evitare tensioni e contratture in ragione della stabilità necessaria all’attacco. Per avere dita libere occorrono braccia e spalle libere, cioè ‘rilassate’ (uso questo termine malvolentieri, ma fa parte del gergo). L’educazione statica delle dita mi sembra la chiave che apre tutte le porte, non sarà mai abbastanza ricordarlo. Che problemi derivano dalla inadeguatezza delle dita! Bisogna uniformare il vigore e l’elasticità delle dita forti e di quelle deboli, obbligarle a superare le stesse difficoltà, crearsi un ingranaggio di articolazione flessibile e docile, con un lavoro stabile e preciso. In una parola bisogna ottenere l’indipendenza delle dita.
L’educazione statica delle dita: b) gli esercizi con le note tenute
Per ottenere questo il pianista dovrà alternare giudiziosamente gli esercizi cosiddetti delle cinque dita e quelli con le note tenute. Le mani naturalmente sciolte, ma manchevoli in stabilità o fermezza, insisteranno con profitto sugli esercizi delle note tenute, che ‘installano’ la mano. Inoltre le note tenute abituano ciascun dito a passare alternativamente da uno sforzo leggero di pressione continua e controllata a uno sforzo di attacco. Questa pratica sottomette le dita a una disciplina collettiva che procura l’uguaglianza di meccanismo.
Lo studio delle note tenute può essere praticato dunque fruttuosamente ogni giorno, ma è un’arma a doppio taglio da usare con cautela e tenendo conto delle disposizioni naturali di ogni esecutore. A questo proposito, è un errore comune e talvolta nefasto servirsi abusivamente delle note tenute per ottenere l’estensione delle dita. I progressi nell’estensione si ottengono soprattutto nella flessibilità e a mano libera.
«La mano deve estrarre il suono dalla punta delle dita»
Bisogna dare una grandissima importanza agli innumerevoli esercizi delle cinque dita con le loro ingegnose combinazioni che possono moltiplicarsi all’infinito. Essi sciolgono le dita. Daranno loro una facilità di articolazione e una rapidità di riflessi che gli permetteranno di non inciampare davanti a una difficoltà tecnica. Ho appena scritto la parola articolazione […]. Senza dubbio non si tratta di contestare il ruolo del polso, del braccio, di tutto il corpo nel gesto pianistico. Altrettanto non bisogna pensare che per essere un grande pianista basti avere dita d’acciaio, ma come per essere un corridore bisogna avere gambe flessibili e caviglie solide e per fare il danzatore bisogna prima lavorare alla sbarra la morbidezza e la muscolatura delle gambe, ugualmente al pianoforte bisogna dapprima lavorare con l’articolazione delle dita e aggiungo: lavorando per l’articolazione non bisogna mai trascurare la qualità del tocco. La mano, l’ho già detto, […] non è soltanto un meraviglioso utensile meccanico: è un’antenna vibrante le cui possibilità fluidiche non sono ancora davvero conosciute. Non è picchiando sulla tastiera che la mano crea una sonorità potente. La mano deve estrarre il suono dalla punta delle dita. Questa formula semplice potrà far sorridere un fisico, ma sarà compresa da un pianista.
L’accentuazione nella musica francese
Le dita dovranno pronunciare le note come le labbra pronunciano le sillabe. Questa preoccupazione, non tanto di ‘perlare’ il suono, ma di ‘parlare’ tutte le note come un oratore o un cantante è una delle caratteristiche della tecnica francese del pianoforte che ricerca istintivamente la chiarezza di elocuzione. Un tocco ben articolato senza secchezza è per un pianista un merito altrettanto prezioso che la dizione per un attore.
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Il passaggio del pollice: un falso problema
Quando si saranno acquisite queste nozioni di base si potrà cominciare lo studio delle scale e domandare al pollice, ormai in possesso della sua funzione di ‘battitore’ verticale (che non gli è naturale, non lo dimentichiamo), di mettere in atto la sua grande funzione naturale del passaggio (sotto le altre dita, n.d.r.). Ho detto bene: funzione naturale, perciò, perché fare del passaggio del pollice uno spaventapasseri? E se posso dire fino in fondo il mio pensiero, del passaggio del pollice non bisogna occuparsene. In effetti, se si è sicuri dell’indipendenza, dell’uguaglianza e della stabilità delle cinque dita (e quindi anche del pollice), esso passerà senza problemi sotto una mano abituata a una presa solida della tastiera e che, definitivamente in equilibrio, non ha più nulla da temere da un movimento di traslazione. […] Ecco perché quando incontro un pianista maldestro con le scale o gli arpeggi, non gli consiglio degli esercizi speciali per il passaggio del pollice, ma di sviluppare la stabilità e l’agilità di uguaglianza delle dieci dita, particolarmente dell’indice.
L’indice è il conduttore della mano
Bisogna rendersi conto in effetti, che pur mantenendo una rigorosa uguaglianza di meccanismo tra le cinque dita ed esigendo da esse lo stesso rendimento, la nostra mano, afferrando i tasti, prende istintivamente un utile punto di appoggio sull’indice, supportato dalle due dita estreme, il pollice e il mignolo. È dentro questa stretta a tre artigli che il pianista stringe e controlla le note. Il medio e l’anulare completeranno il lavoro, ma sono l’indice e i suoi due collaboratori che assicurano la solidità incrollabile della presa. Così, senza schiacciare il tocco, che soffocherebbe il suono, si arriva a tenere costantemente con la tastiera un contatto fermo e leggero allo stesso tempo, che permette di percorrerla in ogni senso, con agio e sicurezza. Nella mano di un pianista l’indice è il capomastro. Se si vuole avere un buon medio o anulare, si deve far lavorare l’indice.
Le scale
Il mio ritardo calcolato nell’introdurre le scale nella tecnica pianistica non vuol dire che io ne sottostimi l’utilità. Al contrario, attribuisco un’importanza estrema a questo procedimento di rilassamento muscolare quotidiano di un esecutore un po’ ‘accorto’. Lo studio delle scale esige un’attenzione attiva. Le scale sbloccano, liberano e rilassano la mano, le donano ali invisibili per sorvolare la tastiera nella sua intera estensione. […] Le dita importanti sono quelle che precedono e seguono il pollice. I più esperti praticheranno lo studio delle scale in velocità, progressivamente su una, due, tre e quattro ottave. Non bisogna dimenticare che nelle scale è la mano sinistra a condurre, è a lei che dovete affidare la cura di educare la mano destra, se fate il contrario, la sinistra si trascinerà. Nelle scale, come d’altronde in tutte le forme pianistiche, la mano sinistra deve avere il primato ritmico. Dev’essere il ‘maestro di cappella’ (citazione da Chopin, n.d.r. ). […] Non trascurate le scale cromatiche, studiatele con cura. Sviluppano la precisione delle dita obbligandole a muoversi in spazi ristretti e a gestire degli intervalli più complessi che quelli delle scale diatoniche. Ugualmente sviluppano l’agilità e la flessibilità del pollice il cui intervento è qui sia più frequente che più facile. I principianti devono cominciare con le scale cromatiche e poi studiare quelle diatoniche. Con lo studio delle scale, gli arpeggi miglioreranno in velocità e controllo della tastiera. La loro pratica confermerà a ogni pianista accorto l’importanza del secondo dito, che non cesserò mai abbastanza di ripetere. A proposito di scale e arpeggi, bisogna sottolineare che nulla può sostituire la loro pratica. Le note tenute e gli esercizi delle cinque dita fortificano e sciolgono la mano, ma non insegnano a ‘pronunciare’, a suonare il pianoforte, mentre le scale e gli arpeggi sì, insegnano a suonare il pianoforte e a dare al pianista il ‘suo vocabolario’. Bisogna perciò conoscerli a fondo e praticare tutte le scale e gli arpeggi senza dimenticare le cadenze.
Le note doppie, le ottave e gli accordi
L’agilità delle dita, la loro indipendenza e soprattutto la loro precisione di attacco saranno sviluppati con metodo da alcuni esercizi che utilizzano degli intervalli non più melodici, ma armonici, le note doppie.
Nello staccato, le note ‘piqués’, i salti, gli esercizi di ottave, il braccio e il polso considerati fino a prima come agenti di sospensione e spostamento della mano e a cui si è soprattutto richiesto di avere la più grande flessibilità, giocano un ruolo più attivo, espressivo e anche preponderante nell’affondo del tasto e nella creazione del suono.
Le ottave ben praticate aumentano considerevolmente la flessibilità della mano, la stabilità del quarto e quinto dito, la precisione e la destrezza del pollice. […] Non si trascuri particolarmente di studiare le ottave staccate eseguendole soltanto di polso. Un piccolo trucco per studiare le ottave consiste nel tenere vicini secondo e terzo dito. Questo espediente isola e rinforza le dita che devono suonare. È in questo ambito un po’ l’equivalente di tenere una o due note negli esercizi delle cinque dita. Non si insisterà mai abbastanza sulla pratica ripetuta dell’accordo. In effetti è l’accordo che costituisce la vera presa di possesso della tastiera. In questo frangente l’azione dell’avambraccio si combina con quello delle dita che si trovano a ‘mordere’ i tasti. In questo gesto ritroveremo l’azione decisiva delle tre dita di cui abbiamo segnalato l’importanza: l’indice, il pollice e il mignolo. Ma una volta assicurata questa struttura, bisognerà verificare l’eguaglianza di attacco delle dita centrali, perché soltanto una pronuncia solida di queste assicurerà la pienezza dell’accordo. Lo studio degli accordi è sia una prova di forza che di sonorità. Deve abituare alla precisione nel contatto simultaneo di più dita sui tasti. A questo proposito, negli accordi come nelle note doppie, la simultaneità perfetta di tocco è una questione di volontà. Non può essere tollerata alcuna sbavatura.
Le varianti ritmiche
Prima di terminare […] vorrei parlare dello studio con le varianti ritmiche, Credo sia mio dovere mettere energicamente in guardia contro il suo uso sconsiderato.
Tanto quanto si può, senza pericolo e anche con profitto, studiare con degli accenti simmetrici spostati oltre la stanghetta della battuta e ripartiti su valori binari, tanto l’impiego smodato di valori puntati presenta dei seri inconvenienti. Non solo questi shock a scatti non apportano alcun beneficio alla mano, ma disarticolano e sregolano con strappi fastidiosi l’equilibrio armonioso che deve osservare. L’importante, in effetti, non è di moltiplicare i ritmi, ma di possedere il ritmo, che è tutta un’altra cosa. Inoltre, le varianti ritmiche distruggono il legato, possono produrre un suono secco e snaturano la sensibilità dell’orecchio. Per certi versi, questo modo di lavorare, come altri, può essere utile, ma bisogna condannarne la pratica continua. È un modo antimusicale e non se ne trova traccia presso nessuno tra i grandi autori di tecnica: Czerny, Moszkowsky, Liszt o Chopin (gli autori di metodi di tecnica, Liszt in particolare, utilizzano i ‘ritmi’, a ragione, per lo studio degli accordi).
Lo studio con discernimento
[…] Ancora una volta ci tengo a ripetere che nel campo di studio della tecnica non ci sono metodi rigidi, ma casi specifici. Bisogna tenere conto dell’individualità psicologica e fisiologica del pianista. Alcune nature dotate e capaci di assimilare rapidamente, ma più velocemente affaticate rispetto ad altre, sbaglierebbero a usare tutte le loro energie per esercizi prolungati a dispetto dello studio delle opere dei maestri. D’altra parte, ciò che è appropriato per una mano può essere dannoso per un’altra e bisogna sempre adattare la tecnica alle sue caratteristiche specifiche, alla sua conformazione anatomica, alla sua struttura, alla sua dimensione, alla sue tendenze naturali. Non è con la costrizione, ostinandosi a tenere note troppo distanti, irrigidendosi, stancandosi che si realizzeranno grandi progetti, al contrario! Solo uno studio intelligente, personalizzato e condotto da un maestro attento e competente permetterà di acquisire la tecnica impeccabile che è la prima condizione necessaria per una buona esecuzione, perché il talento di un pianista non può esprimersi liberamente senza il possesso di un meccanismo trascendente, altrimenti non si andrà oltre un elegante stadio amatoriale. La virtuosità dovrà esser così perfetta e comoda da farsi dimenticare durante l’esecuzione di un capolavoro. La tecnica deve restare un mezzo e non un fine. Agli allievi che gli domandavano come eseguire le sue opere più temibili, Chopin rispondeva: «Con facilità, con facilità!» e questa facilità sovrana è il grande segreto della padronanza, che non si acquisirà mai totalmente nell’ambito ristretto e freddo degli esercizi.
«Il pianista deve avere la mano del suo cuore»
[…] Il perfezionamento supremo della mano sarà ottenuto soltanto una volta abbandonati il meccanismo e l’utilità primaria degli esercizi, e quando la mano raggiungerà lo stadio sensibile della sua missione, in cui, sottomettendosi a tutte le emozioni, come richiedeva Liszt, non si accontenterà di riprodurre meccanicamente il contorno definito di una formula pianistica, ma sposerà la forma vivente ed espressiva di un’opera musicale. Bisogna, d’altra parte, intendersi bene sulla parola ‘tecnica’. Tecnica, mi sembra, non vuole soltanto significare spigliatezza, indipendenza, estensione, forza, uguaglianza. La tecnica è l’insieme di tutte le conoscenze pianistiche: è la padronanza del dosaggio e della caratterizzazione del suono, è l’agio nell’esecuzione progressiva di sfumature di forza e di moto, di accelerando e ritardando, crescendo e diminuendo. La tecnica è il tocco, l’arte di diteggiare, del pedale, la conoscenza delle regole generali del fraseggio, il possesso di un’ampia gamma espressiva di cui il pianista può disporre a piacimento, secondo lo stile delle opere da interpretare e secondo l’ispirazione. In una parola, la tecnica è la scienza del pianoforte. Questa educazione artistica coniugata con il meccanismo costituisce il vero studio del pianista. Riprendendo le parole del pittore Dolent, possiamo dire: «Il pianista deve avere la mano del suo cuore».
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