Torno indietro con la memoria e mi rivedo, quasi trent’anni fa, al conservatorio di Verona, dove la conobbi: tre giorni di lavoro, un seminario su Frescobaldi e la musica italiana della prima metà del Seicento.
Credo che chiunque abbia avuto la possibilità di incontrarla debba riconoscerle, quantomeno, un’unicità, un modo personalissimo di vivere l’intera dimensione della musica, dall’insegnamento alla ricerca, dalle curatele alle interpretazioni.
Un approccio liberissimo con un temperamento di fuoco
Dico questo perché Emilia non ha mai somigliato a nessuno. La sua voce, il temperamento di fuoco ma ben contenuto dal pensiero elevato, un approccio liberissimo a ogni espressione della vita, eppure riservato, la voce indimenticabile, quella capacità di ascolto, profondo quanto temibile, la famosa risata, che quando arrivava era come un fiume di acqua cristallina in piena.
Mi trovai di fronte a tutto questo, per la prima volta, e mi piacque immensamente. Parlava del Seicento, di Frescobaldi soprattutto ma anche di Froberger. E li connetteva con le altre scuole nazionali, volava con le parole e con i suoni, trovando ragioni, prove, similitudini. La sua prerogativa è stata sempre quella di mettere insieme le idee, i concetti e legare le une agli altri, genialmente. Ma ce n’era ancora, per quanto non lo credessi possibile: il secondo seminario, sempre a Verona, ci sarebbe stato solo qualche settimana dopo, e su Domenico Scarlatti, sul quale in quegli anni conduceva una furiosa ricerca per l’edizione critica di casa Ricordi. Arrivò con una valanga di carte, allora lavorava con i microfilm delle sonate, dei quali fornì agli allievi riproduzioni in fotocopie. Siccome viveva già nel suo mondo, ben oltre gli schemi spesso rigidi della filologia, a Verona, nel 1993, le sue lezioni si svolgevano sia al cembalo che al pianoforte, convinta che il pianoforte non fosse il nemico giurato, ma il mezzo per portare la prassi cosiddetta ‘storicamente informata’ a tutti.
Venne il mio turno e io che di Scarlatti e del cembalo ero già perdutamente innamorata, suonai come prima sonata la K 208, in la maggiore. Quando ebbi finito, sillabando bene le parole con quella sua calma gentile che, avrei imparato, era sempre foriera di un’osservazione in qualche modo pungente, mi disse:
«Hai suonato con molta espressione», (pausa). «Bene», (pausa più lunga). Poi la stoccata: «Il problema è che questo tipo di scrittura esige il rubato settecentesco». Disse proprio così: «esige», quando nessuno in Italia parlava del rubato settecentesco.
Aggiunse che l’edizione di Kirkpatrick portava come indicazione di carattere ‘Andante e cantabile’, ma a lei, dalle sue ricerche, risultava invece ‘Adagio e cantabile’. E cominciò a spiegare per filo e per segno perché la mano destra dovesse sfasare con libertà tutto il suo disegno melodico, mentre il basso, al contrario, restava imperturbabilmente a tempo, citando sia Mozart che l’ancora più perentorio Carl Philip Emanuel Bach. Dopodiché la eseguì, scandendo la melodia in cento pronunce, che sembravano ognuna avere una ragione propria, una sorta di invocazione, in cui ogni suono penetrava letteralmente l’aria con precisione, ma variegata, scardinata completamente dall’idea che la melodia fosse soltanto il frutto di un buon legato.
Emilia aveva mani robuste e forti, dita «prensili» come diceva lei stessa, che imprimevano particolare chiarezza e forza al suo tocco; raccontò, anche in altre occasioni, che la prensilità della terza falange l’aveva appresa dalla scuola di Marguerite Long. Ne rimasi folgorata e in quel preciso istante capii che era quella la maniera di fare musica che più mi interessava. Trafitta a vita, cominciò allora il mio cammino con lei, cioè cominciai a rincorrerla ovunque.
Emilia non concedeva facilmente la sua fiducia
Emilia non concedeva facilmente la sua fiducia. L’ho osservata fino all’ultimo accogliere con la sua signorile gentilezza chiunque e immancabilmente tornare ben centrata su se stessa due secondi dopo. È stata una donna davvero piantata sulla consapevolezza di un cammino unico e condivisibile fino a una certa misura, fuori dall’insegnamento e da qualche speciale affinità elettiva. Le sue scelte lo mostrano chiaramente: si dimise dal conservatorio di Milano, a sessant’anni se ne andò ad abitare a Parzanica, 350 anime, in quella deliziosa casetta dalla vista superba sospesa sul lago d’Iseo, dove traeva ispirazione per la sua arte, alla giusta distanza da un ambiente troppo ingessato per i suoi gusti e non così disposto ad accoglierla come avrebbe dovuto.
Emilia è stata pioniera in tutto: come donna, come artista, come docente, e molti, bisogna dirlo, non hanno compreso davvero nulla a lungo, infastiditi per almeno due motivi dalla sua totale libertà, dalla sua originalità, dalla sua incrollabile fedeltà alla sua identità più profonda: perché di una donna, in tempi più difficili di quelli odierni, e perché irriducibile. Un esempio è quando decise di registrare alcune sonate di Scarlatti al fortepiano. Diceva allora che l’espressività, la scrittura di certe sonate non potevano essere state concepite soltanto per il cembalo. Ascoltai con le mie orecchie dissacrazioni nettissime sulla inopportunità di una tale operazione «campata per aria». Oggi è prassi comune. È questa la differenza tra gli onesti professionisti, quando va bene, e gli artisti, gli illuminati, quelli che sanno vedere assai lontano, oltre le corte mete spazio-temporali.
Emilia ha amato molto la vita
Emilia ha amato molto la vita. A Monopoli, nel 1995, tenne un corso bellissimo, in un elegante palazzo del centro. Alloggiavamo tutti, allievi e lei, in un noto hotel di fronte al mare. La mattina, quando alle otto si scendeva per la colazione, rientrava dalla strada, bisognava attraversare prima la strada, appunto, e poi scavalcare gli scogli abbastanza alti sul mare a strapiombo: aveva già fatto il bagno, l’accappatoio bianco stretto alla vita, i capelli bagnati e scompigliati. A metà settembre e a 65 anni, incurante della temperatura del mattino presto. Venticinque anni dopo ho avuto l’onore di intervistarla e il caso ha voluto che quel documento in video sia stato l’ultimo della sua vita. La sera prima mi fece penare moltissimo per cercare di abbozzare almeno gli argomenti, era troppo presa dalla deliziosa cena a base di pesce e non mi dava retta, dedita con tutta se stessa alle «fritturine» che non avrebbe dovuto mangiare. Era febbraio, periodo di Carnevale, in Abruzzo si fanno le ‘chiacchiere’, sfoglie dolci e sottilissime di pasta fritta. Ne servirono alcune a fine pasto, mi chiese di farne portare altre, tanto le erano piaciute: era sempre stata un’ottima forchetta e anche in quell’occasione non si smentì. Il giorno dopo, durante l’intervista, improvvisammo entrambe, o meglio Emilia rispose così fluidamente e così ben disposta alle mie domande che il video fu girato in un’unica, straordinaria presa.
In una frequentazione così lunga, ci sono stati ovviamente dei momenti di pausa. Dopo uno di questi, la chiamai al telefono, e non appena comprese che ero io disse piccata: «Mi stavo appunto domandando che fine avesse fatto, quella!». E aggiunse a modo suo, senza possibilità di scampo: «Devi venire, ti devo parlare». Stavo preparando una registrazione, a maggior ragione obbedii, è il caso di dirlo, e partii immediatamente per Parzanica.
A Parzanica l’hanno amata tutti, adorate bestioline comprese. È noto che aiutava i rospi ad attraversare la strada, nel timore che venissero schiacciati, e altrettanto noto è l’episodio delle lumache ancora vive che vide in vendita, inorridita, in un negozio: le comperò tutte e le riportò in un campo. L’indomani avevano divorato buona parte della verdura che vi era coltivata e il contadino si inferocì. Ma ciò che davvero non avevo mai saputo riguarda ben altro: Emilia ha aiutato tutti quelli che ha potuto, soprattutto anziani e malati, li ha proprio assistiti. L’ho appreso dalle persone del luogo e da un suo caro amico, durante la bellissima festa che la famiglia ha organizzato a ottobre scorso, per il compleanno che non ha potuto festeggiare più con noi. Ha aiutato come è giusto che si debba aiutare, nel silenzio più totale e, di conseguenza, nella riconoscenza, nell’amore e nella stima di tutto il paese, che è stato come il centro da cui partire e ritornare anche in uno scambio continuo e proficuo di arte e informazioni. La cultura non si crea soltanto nelle accademie, se ne era accorta presto e a caro prezzo, perciò la portò anche a chi non aveva i mezzi per avvicinarla. Era la sua missione, era la sua vis politica. I Corsi Popolari serali di Musica a Milano furono, ad esempio, null’altro che uno dei tanti modi di «cedere il passo al sogno», come scrisse nella lettera di dimissioni dal conservatorio.
Negli ultimi anni…
Negli ultimi anni mi ha regalato molto affetto, confidenza e una fiducia che credo sia stata la sintesi del percorso, anche accidentato, di un rapporto lungo, fedele, a volte silente, ma sempre vibrante. Il dono più grande e insieme più doloroso me l’ha però consegnato in un momento drammatico, che con il suo inconfondibile stile ha reso semplice, diretto e, soprattutto, sereno. Il 25 dicembre del 2020 le telefonai verso le 19:30. Mi rispose piena di entusiasmo, con la sua voce miracolosamente intatta, il tono alto per la gioia: «Oh, quanto ti ho pensato! Ti devo dire tante cose, ma proprio tante, e non solo di Cramer». Era infatti accaduto, qualche mese prima, che mi aveva affibbiato a tradimento un approfondimento e una registrazione degli studi di Cramer accentuati da Beethoven, le occorrevano a supporto dell’ampliamento del libro sull’accentuazione. Io le dissi che ero contentissima, che non vedevo l’ora di sapere; lei, stentorea, rispose: «Non ora!». Alle 19:30 del giorno di Natale e a novant’anni compiuti aveva da fare, d’altra parte ha tenuto in piedi fino all’ultimo decine di progetti, nello stupore di chiunque. Se la rideva molto per questo. Quando il tono era quello, non ce n’era per nessuno e perciò mi rassegnai, ma a malincuore. Provai una forte frustrazione, ma anche molta agitazione, anzi avvertii un colpo nello stomaco e pensai: ma quando, allora?
Il 28, tre giorni dopo, mi chiamò e io risposi credendo che fosse giunto il momento delle rivelazioni, finalmente. Invece era avvenuto qualcosa di grave: in qualche modo, affaticatissima, ma lucidissima, si sottopose a uno sforzo incredibile per dirmi: «Io non posso più, tu devi portare avanti, hai capito?». Lo ripeté almeno cinque volte, sillabando lentamente, caparbiamente, fino a quando non fu certa che avessi compreso. In realtà, non avrebbe proprio dovuto parlare, aveva avuto un malore molto serio il 26 dicembre. Ricevetti ancora quattro telefonate nei giorni a seguire. Parlava un po’ meglio, ma sempre a fatica: «Allora ti ha chiamato quella persona? No? Allora la chiamo io! Tu devi portare avanti, io non posso più, hai capito, hai capito?». Da lì cominciò il suo calvario e quello di tutti coloro che l’hanno amata.
Il saluto
Mi ha salutata per sempre il 15 febbraio 2021, perché nonostante io l’abbia chiamata anche dopo, fu quello il nostro congedo. Quel giorno, con l’amico Massimo Salcito, mandammo in diretta un ricordo della sua visita al conservatorio di Pescara, il nostro omaggio al suo incredibile lavoro di una vita. Fu un momento gioioso, ricco di contributi di colleghi, amici e familiari. Non riuscì a seguirlo, ma poco dopo mi telefonò, felicissima. Mi disse che le avevano raccontato tutto, che mi era grata e si raccomandò con molto calore di ringraziare Massimo: «Ha fatto molto per me». Aggiunse che aveva degli appunti di cui discutere insieme, ma erano a Parzanica, e non a Milano dove si trovava in quel momento e che non appena sarebbe tornata a casa ne avremmo parlato. Ma a Parzanica lei non tornò mai più: come per un presagio, nero e simbolico insieme, in sua assenza avevano dovuto chiudere la strada di accesso al paese per una frana. Durante quella telefonata mi chiamò ripetutamente «tesoro», e non era mai accaduto prima. Conservo intatta la carezza e contemporaneamente lo sgomento che mi arrivarono con quel fare espansivo, troppo espansivo per le sue abitudini. Avrei preferito essere chiamata ancora una volta «quella», piuttosto. Avrei preferito il rimprovero assestato di sguincio e amorevolmente tagliente, che però non pesa nulla quando si sa di avere ancora del tempo davanti a sé, quando i giorni permettono ancora di pronunciare un «ci vediamo presto» con leggerezza, anche se non è vero.
È andata via all’alba di un mese dopo, serenamente, per quello che si può quando il corpo tradisce. Finché ha potuto ha ascoltato deliziata il canto degli adorati «uccellini».
L’intervista di Giusy De Berardinis a Emilia Fadini
Questa è l’ultima intervista a Emilia Fadini. Ho avuto il piacere di intervistarla al Conservatorio Luisa d’Annunzio di Pescara in collaborazione con il Maestro, amico e collega, Massimo Salcito che ringrazio.
Grazie Giusy per aver condiviso i tuoi ricordi, è sempre un immenso piacere conoscere ogni volta piccole sfumature di vita e di didattica di Emilia Fadini, la vera decana del Clavicembalo in Italia in tempi moderni.
Un abbraccio, e spero a presto!
Massimo Salcito
Grazie a te, Massimo, per la tua generosità e per il sostegno incondizionato a Emilia e a me.
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